Erano mesi che aspettavo di partecipare a The Modern Magazine, la conferenza-evento curata da Jeremy Leslie di Magculture, un blog che è un faro per chi si interessa di editoria indipendente. Non appena aperte le iscrizioni early bird, ho acquistato il mio biglietto e – con un anticipo mai visto da una last minute traveler come me – a fine luglio avevo anche volo e hotel prenotati a Londra.

L’evento, che alla prima edizione (questa era la terza) era semplicemente il lancio dell’omonimo libro di Leslie, “The Modern Magazine: visual journalism in the digital age“, si è svolto alla Central Saint Martins, università di arte e design vicino alla stazione di King’s Cross: già l’edificio, il Granary Building, è spettacolare e ospita aule e spazi per performance creative di ogni tipo, in un’atmosfera industriale.

The Modern Magazine 2015
The Modern Magazine 2015

The Modern Magazine 2015Tra un break e l’altro si possono sfogliare le riviste di ParkCommunications, stampatore partner di quasi ogni evento curato dal team di Magculture, e anche acquistare una selezione di riviste del Magculture shop. E’ l’occasione per mettere le mani su una delle prime copie di “Independence“, il nuovo libro di Leslie che raccoglie in forma scritta le interviste fatte ai protagonisti dell’editoria indipendente in occasione dell’evento Pick Me Up dello scorso aprile.

La premessa della conferenza è che la carta non è per niente morta e che quella che poteva essere la dirompente novità di qualche anno fa – il web – ora è “the new normal“: un qualcosa che fa parte di questo panorama e non fa più notizia, ma deve essere perfettamente integrato in qualunque strategia editoriale.

Si parte, alle 9:30 “sharp”, e una saletta gremita di editori, grafici e magazine makers accoglie il primo speaker, David Lane della rivista The Gourmand. Premiatissima e molto apprezzata la rivista, questo sarà in verità l’intervento per molti versi più deludente. Parla soprattutto di alcuni redazionali prodotti per la rivista e delle incursioni all’interno del mondo video, con la realizzazione di alcuni corti. “Fare un film“, dice Lane, “è la cosa più vicina al fare una rivista” (ed è con queste parole che mi conquista comunque).

Segue poi Andrew Tuck di Monocle, che racconta per lo più dell’esperienza della radio che 24 ore al giorno distribuisce contenuti sia live via web che sotto forma di podcast (alla fine di ogni trasmissione il file viene immediatamente reso disponibile su vari canali, da iTunes a Soundcloud) per un pubblico di 800 mila ascoltatori. Per un brand che non ha una presenza sui social network, la radio è un modo per rendere il dialogo con Monocle più intimo e personale: “Quando scrivi un pezzo“, dice Tuck, “ti illudi di riuscire a trasmettere un tono e un’atmosfera, ma nel momento in cui l’inchiostro tocca la superficie della carta, questo tono viene inevitabilmente attenuato. Quando qualcuno sente la tua voce, invece, tutto sembra più vivo, vero ed autentico“. Questa riflessione mi sta dando molto a cui pensare, in relazione alle attività che, personali e private, avvengono ormai per lo più in forma digitale e in differita, consentendomi di rivalutare il ruolo di ogni piccolo metodo per avvicinare di più chi sta dall’altra parte di un altro schermo, tentando di stabilire una connessione più autentica e coinvolgente.

Giunge poi sul palco Grashina Gabelmann, Editor-in-chief di Flaneur. E’ forse l’intervento più interessante per chi non è venuto alla conferenza per ascoltare qualche banale dietro le quinte, ma ha portato con sé la curiosità e gli interessi di chi le riviste le fa sul serio. Grashina ci porta a conoscere il progetto editoriale alle spalle della rivista del botanico del marciapiede di baudelairiana memoria, mostrando tutti gli step di ideazione e creazione di ogni numero, per cui non utilizzano un approccio giornalistico: “Non cerchiamo la verità”, dice, “o, meglio, cerchiamo molte verità diverse”. Per ogni numero il team editoriale (e per qualche settimana anche quello grafico) si trasferisce a vivere in una città, anzi in un’abitazione in una strada specifica che diventerà protagonista della rivista. Flaneur è una piattaforma di collaborazione artistica, per cui ad ogni numero collaborano vari artisti locali e realizzano contenuti ad hoc ed esclusivi: “Noi non pubblichiamo portfoli”, ripete più volte Grashina, non senza una punta di orgoglio. 

E’ poi la volta di Sophie Lovell di Uncube, web magazine dedicato all’architettura. Sue sono alcune delle osservazioni più interessanti della giornata, che fanno fermare a riflettere. “Se chiedi a qualcuno perché vuole fare un prodotto editoriale”, dice, “questo qualcuno probabilmente dirà che è suo desiderio ‘fare qualcosa di bello‘, ma questo non dovrebbe essere la motivazione principale dietro all’editoria (o a qualunque altra cosa), abbiamo già fin troppe belle cose”. La spinta dovrebbe essere il desiderio di comunicare idee e pensieri che riteniamo siano degni di essere trasmessi e condivisi, in modo accessibile e non “calato dall’alto”. Pone poi l’accento su come siamo tutti freelance in questo campo: non ci sono le risorse per pagare il mestiere di giornalista e, allo stesso tempo, quanto del “giornalismo” che si vede in giro è critico e supportato da fatti verificati? Quanto è, invece, un semplice copia e incolla di un comunicato stampa (o da un’altra testata) o ancora una pubblicità? Sophie Lovell lascia il palco con alle sue spalle la proiezione che urla a gran voce: keep your integrity, keep communicating.

Central Saint Martins
Central Saint Martins

Louis-Jacques Darveau di The Alpine Review sottolinea come la parola chiave per un business model sostenibile sia “platform“: la rivista di cui è publisher è una sorta di biglietto da visita che ha dato credibilità alla sua agenzia di content strategy (Totem) e che garantisce un seguito a tutte quelle attività parallele che organizza, innanzitutto gli eventi, ma anche podcast e altre riviste che realizza per vari brand. Da’ così ragione a progetti come Monocle che hanno sì al centro un magazine, ma ne hanno fatto un hub in grado di portare flussi di persone verso un ecosistema fatto di contenuti e attività parallele che garantiscono che questo “andirivieni” sia continuo e proficuo e torni sempre al nodo principale – la rivista – che è generalmente la fonte principale di introiti e in grado di fidelizzare al massimo il fruitore. 

Con le slide più tipograficamente stilose della giornata, arriva James Fairbank, Head of Central & Brand Marketing di Rapha, luxury brand di abbigliamento e accessori per ciclismo, che qualche mese fa ha lanciato una rivista – Mondial – che ha fatto girare la testa non solo agli appassionati sportivi, ma anche al mondo della grafica editoriale (estremamente curata dal punto di vista sia tipografico che fotografico, come ogni elemento della comunicazione di questo brand). Il team è costituito da circa 11 persone (anche se la maggior parte del lavoro è fatta essenzialmente da due persone), è al 100% scritto internamente e per il 95% anche il lato visuale viene prodotto all’interno: la creazione di questo gruppo è stata fondamentale per garantire la fattibilità del progetto, che sarebbe stato molto più costoso se commissionato all’esterno. La prima tiratura, racconta Fairbank, è stata di 4000 copie, ma ben presto si è ricorsi ad una ristampa, raggiungendo le 10000 copie. Per Rapha è una scelta vincente perché è uno strumento in grado di creare un brand statement così forte e potente che i lettori stessi ne diventano sostenitori e attivi promotori. 

Dopo pranzo The Modern Magazine propone quasi un intermezzo comico: Charlotte RobertsBertie Brandes, le giovani ragazze di Mushpit, rubano al pubblico una risata dopo l’altra, mentre presentano il progetto di come una fanzine si sia trasformata in un glossy satirico che prende in giro contenuti e metodi di una certa editoria femminile, riproponendo stilemi sia grafici che contenutistici in chiave a volte davvero kitsch. L’arduo compito di seguirle nel palinsesto tocca a Matt Phare, direttore creativo di Shortlist e Stylist, che si sofferma per lo più a parlare delle copertine e dei vari split-run realizzati (ad esempio il numero in 25 versioni diverse con Kylie Minogue), ma accenna anche alla versione digitale che, con 28000 abbonati, decisamente “makes money“. Tocca poi a Charlotte Heal, design director di Kinfolk. Racconta dei tre mesi passati in Oregon a ridisegnare le pagine di una delle riviste indipendenti più importanti e di come, per lei, tipografia e fotografia vadano sempre di pari passo, tenendosi per mano diventando una cosa sola.

Il leit motiv della giornata per ora sembra essere “advertising is evil” – la pubblicità è il male – e il tema fa capolino negli interventi di Flaneur, Uncube, Mushpit, senza però offrire vere alternative al modello che da tempo fa sopravvivere editori grandi e piccoli.

Dopo il tea time, il microfono passa a Scott Dadich, Editor-in-chief di Wired USA che, dopo due voli cancellati, può solo raggiungerci in videoconferenza dagli studi fotografici di Wired a San Francisco. Questa volta Leslie fa una vera e propria intervista, dopo aver raccolto le domande tra il pubblico e sui social. Sono particolarmente attenta quando parla della genesi dell’iPad app di Wired e di come finisce per definirla un esperimento, decisamente influenzato dalla tecnologia con cui è stata creata (la prima Adobe Digital Publishing Suite). “Ammetto di essere stato ingenuo”, dice Dadich, “credendo di sapere come le persone avrebbero voluto fruire di contenuti giornalistici su un tablet. Se penso a cinque anni fa, era necessario costruire quel ‘pacchetto’ chiuso di contenuti, ma oggi la maggior parte delle informazioni sono già automatizzate: pensa a Facebook o Twitter, che ci danno un continuo stream di contenuti. Poi il codice HTML è migliorato e consente grande velocità… vorrei avessimo avuto tutto ciò nel 2010”.

Kati Krause, editor e giornalista, descrive poi la sua idea di editoria digitale: mobile, multiplatform, unbundled. “C’è spazio per app che consentono un’esperienza immersiva”, dice, “ma per la maggior parte dei prodotti editoriali serve un sistema aperto, accessibile da smartphone e veloce. Per me un esempio perfetto è la funzione ‘Discover’ di Snapchat“.

Chiude la giornata l’intervento di Ibrahim Nehme di The Outpost, rivista libanese che… beh, vuole cambiare il mondo e raccontare le infinite possibilità che anche una regione difficile ha o potrebbe avere a disposizione. E’ un momento che emoziona, forse l’unico in tutta la giornata: Nehme ricorda al pubblico che fare editoria e fare giornalismo non è solo fare qualcosa di bello (anche se The Outpost certamente lo è), ma alla sua radice è comunicare, informare ed essere veicolo di cambiamento.

Non c’era modo migliore per chiudere The Modern Magazine 2015… raccolgo la mia tote bag colma di riviste e mi avvio, così, nella piovosa sera londinese.

 

Per il report di The Modern Magazine 2016, clicca qui.