Sono le 9 del mattino del 27 ottobre e, dopo qualche fermata di tube, arrivo alla Central Saint Martins, dove, per il quarto anno consecutivo, si svolge The Modern Magazine. C’è già una piccola coda di persone che danno il proprio nome e – questa è una delle novità di questa edizione – anche il proprio indirizzo per ricevere la rivista che il team di Magculture realizzerà come sintesi dell’evento.

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Ad accogliermi, oltre a qualche installazione degli studenti della scuola (“CSM”, come la abbreviano qui), il consueto MagCulture shop in versione “mobile”, accompagnato da un espositore di riviste stampate da uno dei partner dell’evento, Park. Si possono sfogliare ed acquistare i magazine di cui si parlerà durante la giornata, oltre a vari altri titoli prettamente “indie”: da NANG Magazine a Mushpit, da The Outpost a Delayed Gratification.

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I saluti e benvenuti di rito sono di Cath Caldwell che insegna alla CSM (ed è autrice di un ottimo manuale di grafica editoriale, “Editorial Design: Digital and Print“), e di Jeremy Leslie, creatore dell’evento e di MagCulture. Ci tiene a dire – come ormai da un po’ di eventi a questa parte – che non ha più molto senso contrapporre editoria indipendente ed editoria mainstream, preferisce parlare di “small” e “big”: piccole pubblicazioni che hanno il potenziale di diventare più grandi e, contemporaneamente, grandi pubblicazioni che rischiano di diventare più piccole (o estinguersi, aggiungerei).

L’introduzione è davvero breve e si passa subito all’incalzante susseguirsi di ospiti.

MacGuffin magazine

Kirsten Algera, editor-in-chief di MacGuffin

E’ la direttrice dell’olandese MacGuffin ad aprire la giornata. Per chi non la conoscesse, la rivista, sottotitolata “The life of things”, tratta monograficamente in ogni uscita un oggetto della vita quotidiana: nel primo numero il letto, nel secondo la finestra, nel terzo la corda. Kirsten racconta di come l’idea di MacGuffin, preceduta da un altra rivista, “Club Donny” (di cui sono usciti 10 numeri), oltre all’ovvio ispirarsi al termine coniato da Alfred Hitchcock per designare un oggetto attorno al quale ruota la trama dei suoi film, sia nata da una mostra nel 2013, chiamata per l’appunto “The life of things” e da una riflessione fatta su quanto si vede in giro, non solo a livello editoriale: la maggior parte dei prodotti si focalizza sull’innovazione e sulle novità, sono pochi quelli che invece raccontano la storia delle cose o di ciò che esiste già da tempo. Cita come fonte di ispirazione la rivista Nest, A quarterly of interiors, pubblicata tra il 1997 e il 2004, che ormai si trova solo su eBay.

Per il team di MacGuffin, quindi, la personalità e l’espressione di un punto di vista sono elementi fondamentali, al punto che arrivano a dire “no” a danarosi inserzionisti, se le loro pubblicità non seguono la visione editoriale del magazine (cita l’esempio del brand Moooi, a cui hanno rifiutato un’inserzione).

Per i graphic designer che ci leggono, la direttrice ha raccontato anche come non si siano resi la vita più facile scegliendo una carta particolarmente spessa e molto lenta nell’assorbire l’inchiostro di stampa (circa 3 settimane!), come la Arcoprint Milk di Fedrigoni, e usando caratteri dalle famiglie non completamente digitalizzate come quelle di Churchward.

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Christoph Amend, editor-in-chief di Zeit Magazin

Per me uno degli interventi più attesi, non delude, anzi. Amend è un piacevole oratore e non fatica a riempire il suo speech di informazioni utili (e neanche a cambiare le slide… impresa davvero difficile per alcuni speaker che lo seguiranno sul palco nel corso della giornata). Prima di tutto racconta di come Zeit Magazin sia un supplemento settimanale al quotidiano Die Zeit (che conta circa 2 milioni di lettori) e della struttura del team della casa editrice: a Berlino si fa la rivista settimanale, ad Amburgo il quotidiano e a Monaco c’è l’art director, Bureau Mirko Borsche. Uno dei vezzi, chiamiamolo così, per cui Zeit Magazin è famoso è la sua “seconda copertina” che segue quella che comunemente consideriamo la copertina di una rivista: una sorta di secondo punto di vista e un appuntamento atteso dai lettori, anche sui social media. Ogni tanto, racconta, per sperimentare, arrivano a fare 3 cover, ma in occasione del 40esimo compleanno della testata sono arrivati a farne ben 40: come testimonial – anch’ella quarantenne – Claudia Schiffer, ritratta dal fotografo Frederike Helwig 40 volte, nel tempo record di soli due giorni.

Altre volte, invece, prendono la strada opposta e si presentano addirittura senza alcuna copertina, come nel numero 39, uscito lo scorso settembre:

Tra le più belle iniziative editoriali c’è il numero uscito a febbraio 2016, allegato al quotidiano che festeggiava il suo settantesimo compleanno: ZEIT Magazin non ha la stessa età, così il team ha immaginato di scrivere nel febbraio del 1946, la diva in copertina è Marlene Dietrich e la Germania di cui si parla all’interno è divisa e appena uscita dalla seconda guerra mondiale.

MGZN - Zeit Magazin 8 - 2016Interessante anche la collaborazione con grandi fotografi – da Jurgen Teller a Paolo Pellegrin, da Brigitte Lacombe a Cattelan & Ferrari – ai quali viene affidata per un anno una rubrica settimanale. E’ questo, racconta Christoph, ad ispirare il lancio, nell’inverno del 2013, dell’edizione internazionale di ZEIT Magazin, un semestrale che conta una tiratura di 16000 copie, il 60% delle quali va nel mondo, il 40% è venduto in Germania. In inglese, raccoglie i migliori contenuti del settimanale (e si trova in Italia…).

Non è questo l’unico “spin off”: nella zona di Amburgo e nel nord della Germania si può acquistare un “city magazine”, ZEIT Magazin Hamburg, mentre ad inizio settembre è stato lanciato un maschile, ZEIT Magazin MANN (il secondo numero uscirà a Marzo 2017). Una scelta insolita, forse, quella di lanciare una rivista maschile, ma insolito è lo stesso prodotto: ispirato dalla storia di un viticoltore che si è reinventato tale a 92 anni, ha come leit motiv l’idea che non è mai troppo tardi per cercare di essere più felici. Prima di chiudere, Christoph Amend mostra la reazione di un lettore su Instagram, che sembra riassumere in poche parole lo spirito del nuovo “magazin”: ho 39 anni e ho comprato oggi la mia prima rivista maschile.

 

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Terri White, editor-in-chief di Empire

La parola passa a Terri White che parla a nome della rivista meno indie di tutte: Empire, a suo dire la #1 tra le riviste dedicate al mondo del cinema e dell’intrattenimento (specificando che non ce ne sono comunque poi molte con cui competere). Con un po’ di amarezza, noto che quello che sta proiettando somiglia più al media kit che non a una presentazione vera e propria destinata agli addetti ai lavori. Stringo i denti e continuo ad ascoltare.

Le sfide che Empire deve affrontare riguardano come rimanere culturalmente rilevanti, come innovare e fare crescere il brand, tra spazi digitali ed eventi dal vivo. Terri racconta così l’esperienza di Empire Live, una due giorni sponsorizzata da American Airlines, con 36 eventi tra proiezioni esclusive e sessioni di Q&A che visto ben 8000 partecipanti a Greenwich, fuori Londra.

Il podcast di Empire, invece, è una “bestia” dalle potenzialità inaspettate: alcuni episodi contano 25000 ascolti, alcuni arrivano a 100000. Per quanto riguarda la versione digitale, le copertine si presentano sempre animate e, in qualche caso, in accordo con gli studios cinematografici, si può sperimentare di più, come nel numero dedicato al film Deadpool nel febbraio scorso: il supereroe è protagonista di uno spot un po’ sboccato che ha visto l’attenzione moltiplicarsi grazie alla diffusione sui social dell’attore, il suo canale Youtube e quello della casa di produzione.

Non è un caso isolato di “hype” per copertine ed esperimenti tecnologici (più o meno…): per il lancio di Star Wars – Il Risveglio della Forza, Empire è uscita con copertine con soggetti diversi realizzate con stampa lenticolare in 3D e un’edizione speciale con una statuetta di Kylo Ren, andata a ruba in un battito di ciglia, nonostante il prezzo più alto (£ 5.50 anziché i soliti £ 4.50). Ma l’ultima idea è quella del numero in uscita il giorno stesso di The Modern Magazine: una copertina dedicata al film della saga di Harry Potter “Animali fantastici e dove trovarli”, con cui hanno cercato di emulare la magia della Gazzetta del Profeta del racconto originale inserendo all’interno della cover un piccolo schermo che consente di vedere un contenuto video esclusivo (circondato da tanti strilli, curati in collaborazione con il team di Pottermore). Mentre guardo la proiezione e Terri White che si fa in quattro per esprimere la gioia che questo progetto lungo un anno le ha dato, mi chiedo se per caso ha visto quanto ha fatto il New Yorker qualche mese fa, con maggiore efficacia, sfruttando la realtà aumentata.

Questo numero speciale, intanto, è in vendita a £ 9.99 solo in alcuni supermercati Sainsbury’s selezionati nel Regno Unito.

 

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Il team di Ladybeard

Si torna a parlare di editoria indipendente – pardon, “small” – con tre ragazze del team al timone della rivista femminista Ladybeard. Ci tengono subito a dire che pur essendo “small” (sono giovani e il team conta in totale 7 persone), hanno grandi ambizioni e la rivista stessa è grande e grossa, per foliazione e grammatura della carta. Obiettivo di Ladybeard è affrontare gli stessi argomenti delle riviste femminili mainstream, ma da un diverso punto di vista: il primo numero, che in copertina presentava un sex toy tra teli di raso rosa, era dedicato al sesso, il secondo alla mente e presenta, invece, una cover più astratta. Le ragazze preannunciano che per Novembre è previsto il terzo numero, a tema “beauty“.

Raccontano di lavorare con 70 collaboratori esterni e di avere un processo editoriale molto lento, anche perché tutte quante hanno un “lavoro vero” al quale devono dedicare buona parte delle loro giornate. Ogni numero propone un illustratore principale che da’ il tono, con l’obiettivo di affiancare temi spinosi e difficili ad immagini più leggere e spiritose.

 

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Jack Self, editor-in-chief di Real Review

Segue Jack Self, non esattamente il top in fatto di arte oratoria, che racconta l’esperienza alla direzione di Real Review, il bimestrale di architettura edito dalla Real Foundation. Inizialmente finanziato attraverso Kickstarter, si propone di rispolverare una formula molto popolare in ambito accademico negli anni Sessanta,  quella della recensione e della critica, attraverso la quale guardare al passato per formulare una proposta per il futuro.

La rilegatura a punto metallico, unita alla doppia piega verticale, propone una fruizione molto particolare della rivista che si sviluppa aprendosi a finestra, difficile da spiegare a parole ma che vi mostriamo qui in una sequenza che rende tutto più chiaro! La conseguenza è che lo svelamento dei contenuti e l’accostamento di foto e testi si svolge in due tappe, con risultati potenzialmente sorprendenti. 

Real Review

 

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Rebecca Nicholson, editor-in-chief di Vice UK

Prende poi la parola Rebecca Nicholson, al suo ultimo giorno di lavoro come direttrice di Vice UK. Ammette più volte di non sapere come riempire i 40 minuti di speech a lei riservati, ma se la cava elargendo cinque, imprescindibili consigli:

  • non datevi falsi limiti (in riferimento alla leggenda metropolitana secondo la quale le persone non leggono articoli più lunghi di qualche riga, porta ad esempio tante storie di successo pubblicate su Vice che contano migliaia di battute);
  • rispettate il vostro pubblico (non trattatelo con condiscendenza);
  • cercate un punto di vista diverso (per contrastare il dilagare del clickbait);
  • collaborate;
  • siate di larghe vedute.

Che dire… grazie Rebecca.

 

Raygun and Emigre magazines

Segue la pausa pranzo ed è l’occasione per mettere le mani su copie rare di riviste del passato, guidati da Cath Caldwell: sfoglio avidamente qualche copia di The Face, Emigre, Raygun e BlahBlahBlah Magazine, con le mani rigorosamente guantate per non rovinare la preziosa – e ormai datata – carta.

 

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Paul Gorman, giornalista e autore di “Legacy: the story of The Face” (Thames & Hudson, 2017)

Sale poi sul palco Paul Gorman che, vestito di tutto punto, ci regala una bellissima lezione di storia dell’editoria. Esperto di cultura pop, cinema e musica, sta scrivendo un libro dedicato ad una rivista che ha segnato l’editoria inglese degli anni Ottanta e Novanta: The Face. Nick Logan – “papà” di altri magazine come Smash Hits ed Arena – la creò nel 1980 e, con la direzione artistica di Neville Brody, inaugurò per la prima volta un filone di riviste di lifestyle in cui moda, costume e musica facevano parte di una stessa conversazione (raccontando per prima nuovi generi musicali quali i New Romantics e il grunge di Seattle). In vendita a 60 pence, vendeva 56 mila delle 75 mila copie stampate (con breakeven a 50 mila) e negli anni ha potuto vantare collaborazioni con super stylist come Ray Petri e fotografi come Jamie Morgan (entrambi del Buffalo collective, un team di fotografi, designer ed artisti che hanno segnato la scena inglese degli anni Ottanta) e Nick Knight.

Inizialmente, i rivali di The Face sul mercato sono I-D (lanciato 6 mesi dopo), Blitz e Blueprint, quest’ultima una rivista di architettura, a dimostrazione dell’influenza di The Face su tutto il mondo editoriale. Negli anni Novanta, invece, diventano FHM, Maxim, Dazed & Confused, Sleazenation e Wallpaper (Tyler Brulè propose allo stesso Logan di investire nel suo lancio, ma lui rifiutò).

Tra i numeri più venduti, quello del quindicesimo anniversario del magazine (il 180°), mentre il più venduto in assoluto è stato quello con in copertina Robbie Williams: mentre lo dice, Paul Gorman non nasconde un certo disprezzo per il cantante in questione!

 

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Kai von Rabenau, editore di mono.kultur

A ribadire l’importanza di essere indipendenti è Kai von Rabenau, editore di mono.kultur, giunta al 42esimo numero. Di natura monografica, ogni numero propone un’intervista ad un artista, nei campi più disparati (dalla musica alla finanza, dall’arte all’architettura): il suo pubblico è per il 30% in Germania e per il 70% nel mondo e di questo deve tenere conto nella scelta dei contenuti. Arriva a definirla “the ultimate zine“, complice anche la sua forma dalla piccola foliazione e rilegatura a punto metallico e, con orgoglio, non ha pubblicità né parla di prodotti o moda.

 

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Penny Martin, editor-in-chief di The Gentlewoman

Dopo Christoph Amend di Zeit Magazin, è lei la più attesa speaker per me: Penny Martin. Tra le tante riviste che acquisto, The Gentlewoman (dagli stessi editori di Fantastic Man, The Happy Reader e COS magazine) è l’unica che posso dire di leggere dalla prima all’ultima pagina: forse sono perfettamente in target, forse è semplicemente una rivista ben fatta dal punto di vista grafico e contenutistico, che affronta argomenti e personaggi tralasciando le banalità delle riviste mainstream e andando ad approfondire e proporre un punto di vista meno scontato.

La ascolto rapita parlare veloce, con il suo accento scozzese, mentre racconta di come termini quali “sexy” siano banditi dalla sua redazione, o di come, alla presentazione di news e prodotti, The Gentlewoman preferisca conversazioni con personaggi femminili, profili di 12-16 pagine, didascalie ricche di dettagli. La sua è una lotta contro le agenzie “DMR”, che cioè contano le menzioni di un brand su riviste e giornali (sul modello dell’Eco della Stampa italiana), numeri che poi vengono usati in fase di negoziazione dei prezzi delle inserzioni pubblicitarie. A varie segnalazioni spalmate su più numeri, The Gentlewoman preferisce dedicare articoli corposi una tantum.

Con orgoglio, la Martin sottolinea come un contenuto “The Gentlewoman” è un contenuto che rappresenta le persone che realizzano il magazine. In sala, dice, c’è quasi metà del team: Veronica Ditting, art director, e Seb Emina, che parlerà più tardi della sua avventura a The Happy Reader.

Per quel che riguarda le strategie digitali, a partire dal 2013 la strada si è andata delineando più nitidamente anche per The Gentlewoman: le lettrici desiderano rimanere in contatto con il brand tra un numero della rivista e l’altro, ma il digitale deve essere apticofisico, dice Penny Martin, ed è per questo che hanno deciso di fondare una sorta di club che è anche l’anima degli eventi dal vivo che organizzano.

 

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Tony Rushton, ex art director di Private Eye

Questo è forse il momento più British di tutti. Sul palco, Jeremy Leslie accompagna Tony Rushton, ex art director di Private Eye, rivista satirica bisettimanale che affronta i temi della politica inglese in maniera ironica. L’intervista è divertente, certo, ma quello che rimane è che Rushton non usa il computer, potete contattarlo solo al telefono e altri aneddoti del genere.

 

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Seb Emina, editor-in-chief di The Happy Reader

La rivista in formato tascabile è un brand magazine per Penguin Books, la casa editrice. E’ indie per modo di dire, poiché alle spalle ha questo importante brand ed è realizzata ed edita dal team della rivista Fantastic Man.

Nasce nell’inverno 2014 e ha all’attivo ormai otto numeri: con un format di 64 pagine, è facile da portare con sé, ha un prezzo basso (£ 3) ed ha una connotazione “stagionale” (Seb Emina cerca di spiegare il concetto dicendo che “il numero che esce in primavera sa di primavera”). Interessante come ogni numero sia diviso in due parti: una prima parte con un’intervista con una celebrity amante della lettura e poi una seconda ispirata da un libro, ma non su un libro in senso tradizionale, bensì come se il libro fosse “guest editor” del magazine.

 

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Gail Bichler, design director di The New York Times Magazine

La giornata si conclude con un intervento di eccezionale interesse: Gail Bichler ci trasporta all’interno di una delle redazioni più incredibili, quella che realizza la rivista settimanale allegata ad uno dei maggiori quotidiani al mondo, il New York Times. Partiamo dai numeri: il NYT conta 3.2 milioni di lettori per la versione cartacea e 1 milione di abbonati alla versione online; sono gli stessi che ovviamente accedono anche al magazine settimanale. La rivista è pubblicata 52 volte all’anno e il reparto design conta 7 persone, ma ha accesso alle risorse del NYT: Gail mostra più volte un’infografica che propone il numero delle persone coinvolte e la complessità della gerarchia all’interno della casa editrice.

Come molti allegati, anche il NYT Magazine può trarre vantaggio dal fatto che non va in edicola a vendersi con la sua copertina: cover e posizionamento del logo cambiano di settimana in settimana, lasciando ampia libertà di sperimentare e realizzando, così, alcune tra le immagini più interessanti e di impatto.

Gail Bichler racconta poi del meeting che si tiene ogni settimana per discutere della cover: per arrivare preparati è necessario sintetizzare la storia di copertina in una semplice frase, che diventi poi la base dell’idea iconografica. Uno dei “paletti” della rivista a livello fotografico è usare meno fotoritocco possibile: si tratta pur sempre di una pubblicazione di news, ogni fotografia ampiamente ritoccata diventa una “photo illustration” e deve essere etichettata chiaramente come tale.

Si accenna anche all’attenzione del NYT per le nuove tecnologie e, citando Chris Milk (involontariamente o no, non è dato sapere), indica la realtà virtuale come il mezzo più attuale per coinvolgere lo spettatore e creare empatia e trasporto tra lui e il contenuto. Dopo aver sperimentato quasi un anno fa con il VR nel numero “The Displaced”, da ieri il NYT ha inaugurato una serie di contenuti quotidiani in realtà virtuale.

 

The Modern Magazine si conclude così, decisamente su una nota alta. Pecca, come del resto nell’edizione dello scorso anno, nel non approfondire tanti argomenti che vengono solo accennati e nel non esplorare tante realtà di cui si sfiora solo la superficie. Parlando di editoria indipendente (e non) a degli addetti ai lavori – nel pubblico ci sono soprattutto grafici, piccoli editori o aspiranti tali – non ci si può limitare a presentare qualche slide accattivante e a raccontare qualche aneddoto: se si è interessati all’argomento, basta fare un giro su Google per raccogliere questo tipo di informazioni (o leggersi i libri usciti sul tema negli ultimi anni, come quello di Ruth Jamieson o il più recente “So you want to publish a magazine?“). In un evento del genere – perché evento sia – ci vorrebbe maggiore attenzione sia per i risvolti più meramente economici (modelli che siano replicabili da altri) sia per quell’ambito dell’editoria che si tende spesso a mettere nell’angolo, quella digitale.

Seguono dei drink, ma a Gatwick mi aspetta un aereo (e tanta nebbia che lo farà ritardare) e mi avvio verso la stazione di St. Pancras…