Post diGiovanna Sala

Detesta parlare di sé, preferisce scrivere di un sacco di cose. Ama Pinterest, la musica inglese, i libri senza figure, viaggiare e trovare risposte su Google. Ogni tanto insegna editoria digitale.

Magculture Live 2019

Quest’anno Magculture Live (ex The Modern Magazine, ex ModMag) parte con il botto nonostante la lineup sembri un po’ sottotono rispetto ad alcune edizioni precedenti, a parte quel Matt Willey, art director del New York Times Magazine, che ovviamente è stato lasciato per ultimo.

ARIANE SPANIER, FUKT
Tutto ha inizio con Ariane Spanier, brillante, simpatica, finalmente con una presentazione con slide che si muovono e suonano. Racconta, attraverso un ordine alfabetico di parole chiave e aneddoti, la storia di FUKT magazine che, nonostante l’assonanza con una ben nota parola inglese, è norvegese e significa “umidità”. Fondata dal suo partner nella vita e nel lavoro, l’artista Björn Hegardt, nel 1999, lei entra a farne parte nel 2004, e oggi la rivista annuale affianca il suo lavoro come grafica e art director.

FUKT è un inno al disegno e all’illustrazione, una celebrazione dell’espressione umana, anche perché – dice – il disegno è il primo linguaggio che impariamo da bambini.
Ariane racconta le varie vicissitudini di una rivista votata all’indipendenza, tenuta in piedi da un team piccolissimo, senza alcuna forma di pubblicità (ma con accesso ad alcuni finanziamenti del governo norvegese che coprono in gran parte le spese di produzione). Molto sentita (e condivisa da gran parte del pubblico) è in particolare la questione della distribuzione: dopo un inizio molto artigianale, basato sulla distribuzione in alcune librerie selezionate, dopo la partecipazione alla New York Book Fair del 2008, decidono di affidarsi a due distributori, ma è l’inizio di un incubo, tra ritardi nei pagamenti e un sistema chiaramente “malato” per un prodotto di nicchia. Oggi si affidano in parte a un distributore, ma la maggior parte delle copie è gestita internamente da loro e, grazie ad un’accurata selezione di rivenditori, quasi ogni numero va sold out.

Le bellissime copertine sono le protagoniste di alcuni tra i momenti più toccanti ed esilaranti della presentazione: da quella misterioso-kinky del sex issue (stravenduto e segnalato persino da Playboy), a quella tipografica, passando per quella abitata da topolini bianchi, tutte sono oggi accompagnate da una versione animata che fa da teaser del numero, e sono sempre più interattive e accattivanti.

Il numero uscito nel 2009, con l’iconico ritaglio in copertina, ha portato fortuna e sfortuna ad Ariane: dapprima scopiazzato da qualche rivista cilena, ha portato poi il Washington Post a commissionare proprio a lei la realizzazione di una copertina per l’allegato settimanale del prestigioso quotidiano americano.

JAMES HEWES, FIPP
I fucking love magazines”: esordisce così il CEO di FIPP, James Hewes, aprendo quello che sarà un intervento molto diverso da tutti gli altri. Per una volta si parla dei trend del settore dei media, in parallelo con gli sviluppi nella società. Quello che emerge è che i cambiamenti ora avvengono in maniera più rapida, rendendo difficile fare qualunque previsione e anche reagire a questi cambiamenti, da parte degli editori.

Quello che emerge dalle statistiche proiettate è che il modello di business tradizionale, basato sulle inserzioni pubblicitarie, è stato spazzato via: decollato nel secondo dopoguerra, ha raggiunto la sua massima espansione tra il ’90 e il 2000, per poi crollare irrimediabilmente e giungere agli stessi valori del 1950.
A fronte di questo crollo, alcuni editori hanno chiuso bottega, altri hanno dovuto ingegnarsi e trovare altre forme di reddito, dalla licenza del marchio all’organizzazione di eventi (Hewes dice che devono trovarne almeno 3 o 4 per rinvigorire le proprie finanze).


Se si è un grande editore, l’obiettivo dovrebbe essere quello di diventare il riferimento all’interno di un settore specifico e porta come esempio Meredith, leader nel mercato delle riviste femminili (da Living a Homes & Garden). Meredith, dopo l’acquisizione multimilionaria di TIME Inc nel 2017, ha infatti poi proceduto a tenere nel suo portfolio di riviste testate quali People e Food&Wine, andando invece a vendere quelle di target e mercato completamente diverso, come TIME: venduta al miliardario Marc Benioff di Salesforce.com – un “tech guy” – per 190 milioni di dollari, questa storia ricorda quella del Washington Post acquisito da Jeff Bezos di Amazon… questi “tech guys” sono in grado di infondere nuove idee nel mondo editoriale, proprio grazie alla provenienza da tutt’altro settore.
Il tempo stringe e l’intervento di Hewes – davvero interessantissimo – si fa dal ritmo sempre più serrato: racconta del numero di titoli indipendenti crescente in ogni mercato, del fatto che i player principali del mondo dell’advertising online – Google, Amazon e Facebook – non hanno alcun interesse per il mondo editoriale e quindi affidarsi a loro per la propria promozione è sostanzialmente sconsigliato, dei trend da online a stampa, come Hodinkee, Airbnb, Buzzfeed e Facebook. E molto altro. Anche dopo un reality check come questo, I still fucking love magazines, too.

Segue una sessione intitolata “making a difference” (fare la differenza), a cui partecipano Alexander Morrison di CONTRA, Martha Dillon di IT’S FREEZING IN LA! e Felicia Pennant di SEASON. Queste tre riviste sono portatrici di cambiamento o trattano tematiche delicate, poco rappresentate nei media mainstream o poco discusse. Contra, ad esempio, racconta il conflitti attraverso il rapporto tra immagine e potere, analizzando in profondità una diversa tematica in ogni uscita (Displacement e Protest i primi due pubblicati). It’s freezing in LA! prende il nome da un twit di Donald Trump che smentiva – a suo dire – l’esistenza del cambiamento climatico… la rivista è una zine che affronta il tema del climate change da angolature sempre nuove ed è essa stessa sostenibile: poche pagine, sfruttate al meglio per non sprecare carta. Season, invece, usa passione, diversità e creatività per combattere il sessismo, la discriminazione basata sull’età e l’omofobia tipiche del mondo del calcio, per unire fashion e football in una zine.

Giovani e forse un po’ idealisti, rappresentano una ventata di freschezza e di speranza per il futuro.

Sale poi sul palco Gert Jonkers, co-fondatore della rivista di moda maschile Fantastic Man. Avrebbe potuto dire tante cose della rivista, meritatamente tra le riviste indipendenti di maggiore successo al mondo, ma non ci riesce. Racconta in parte l’evoluzione del magazine, distribuito per la prima volta nel 2005 con sole 124 pagine e in copertina l’attore Rupert Everett e oggi disponibile in una veste tutta nuova, quadrato, con un nuovo logo, nuova carta (ora è glossy), e un tema, la Grecia. Racconta del suo tentativo di rendere la politica “fashionable”, cercando di coinvolgere vari esponenti politici internazionali per degli articoli (tra cui il nostro Matteo Renzi): una cosa che non gli è mai riuscita prima di questo numero, sulle cui pagine troneggia Yanis Varoufakis, ex ministro delle finanze greco. “Di strada se ne è fatta”, dice, “da quando Barack Obama fu criticato aspramente per essere finito sulla copertina di Men’s Vogue” (un’avventura editoriale di breve successo, questa di un Vogue al maschile per il mercato americano, destinata a durare solo un paio di anni, dal 2005 al 2008).

Infine Jonkers intrattiene il pubblico mostrando alcune pagine da una delle sue più grandi fonti di ispirazione, un catalogo di abbigliamento per corrispondenza dal titolo International Male, e una selezione dei suoi pantaloncini di jeans a cui più è affezionato. Divertente, forse, ma niente di più…

SERGE RICCO, L’OBS
Art Director di L’Obs, settimanale francese rilanciato con questo nome nel 2015, con il suo accento francese e le sue bellissime slide, Ricco ammalia tutta la platea. Il suo è un intervento a metà tra il poetico e il cinematografico: mostra scene iconiche da film altrettanto celebri come “A Bout De Souffle” di Jean-Luc Godard e “Il dittatore dello Stato libero di Bananas” di Woody Allen, scene in cui l’editoria fa da sfondo alle vicende narrate.

J’adore the spread – dice di amare la doppia pagina che, nelle riviste, fa da apertura ad un articolo. Spiega che è come avere le braccia aperte e gli occhi aperti, proprio così, come le due pagine verticali che si aprono a formare qualcosa di affascinante, per convincere il lettore ad immergersi in una nuova notizia.

JODY QUON, New York magazine
Un intervento fantastico da parte del Photography Director del magazine newyorkese da 15 anni, sarei stata ad ascoltare gli aneddoti di Jody Quon per ore ed ore. L’obiettivo, per lei e il suo team, è quello di mostrare ciò che è un soggetto familiare in un modo nuovo, sicura di poter contare su un team di collaboratori e un pool di fotografi eccezionali.
Molti gli esempi che porta e descrive, come la recente copertina sull’impeachment di Trump o quella, datata 2012, in cui New York è ritratta da un elicottero in volo durante il blackout dovuto all’uragano Sandy.
L’ispirazione? Spesso arriva da Instagram, che usa per seguire nuovi fotografi con cui instaurare potenzialmente un a collaborazione.

MATT WILLEY, Port Magazine e New York Times magazine
E’ lui l’ospite più atteso ed è lui quello che si avvicina al palco con fare più timido e modesto. Il suo lavoro è eccezionale, complice anche la collaborazione con grandi direttori e designer – come il Vince Frost con cui ha fatto la splendida Zembla nel 2003 o Gail Bichler con cui ha contribuito a rendere il New York Times Magazine un appuntamento settimanale non solo per i lettori affezionati del quotidiano, ma anche i designer, illustratori e fotografi di tutto il mondo. Il suo racconto parte con l’aneddoto ormai noto della quasi totale sordità che gli venne diagnosticata da bambino e che favorì il suo avvicinamento al mondo dell’illustrazione e della grafica. Da lì in poi la sua storia è costellata di progetti editoriali tra cui spicca Port di cui è co-fondatore con Dan Crowe e Kuchar Swara, in cui emerge una forte predilezione per la tipografia e il suo uso più creativo (“Non avevamo budget per le immagini a Zembla, quindi abbiamo usato i caratteri come immagini”, dice).

Di lì a pochi giorni sarebbe stata annunciata l’uscita di Matt Willey dal team del New York Times per diventare partner del prestigioso Pentagram.

Per le recensioni delle edizioni precedenti di The Modern Magazine, clicca qui.

A caccia di riviste per le vie di Parigi

Welcome to the Jungle magazine

A volte è affascinante perdersi in un Paese di cui si comprendono a malapena alcuni frammenti della lingua, e lasciar correre l’immaginazione di fronte alle cose che ci passano davanti.

Parigi, ad esempio, è costellata di Kiosque De Presse, edicole accoglienti, spesso numerose all’interno di una sola grande piazza, come Place de la Bastille, dove se ne avvicendano almeno tre, a poca distanza l’una dall’altra, sul lato Est. L’edicolante saluta, mentre scandaglio metodicamente le tante mensole (alcune fisicamente irraggiungibili) piene di riviste che spaziano dalla moda al giardinaggio, passando per il cinema. Ci sono copertine che catturano la mia attenzione ripetutamente, andando di edicola in edicola.

Una è quella di Society, quindicinale di attualità “libero e indipendente”, la cui testata graziata e importante troneggia sempre in bella vista. Esplorando un po’ di più tra gli scaffali, si scopre che periodicamente pubblicano anche delle monografie ed è proprio quella sul crimine, appena giunta al suo terzo volume, ad attirarmi. Non è un libro, ma è qualcosa di più di una rivista, e l’illustrazione monocromatica, insieme con la tipografia da comic book, si fa notare ripetutamente.

La Septieme Obsession

Il tema più diffuso tra le testate, tanto quanto la moda, è probabilmente il cinema, erede di una grande storia francese nel settore in cui brillano ancora i Cahiérs Du Cinema: ne recupero qualche numero risalente agli anni Novanta dopo una passeggiata tra i bouquinistes sulla Senna e i negozi di libri usati di Boulevard Saint-Michel dove, tra romanzi rosa e bestseller datati, ho anche modo di sfogliare una splendida collezione di National Geographic che spazia dagli anni Ottanta ai Duemila (di cui non manco di prendere un paio di esemplari). Tra le riviste contemporanee sul tema c’è La Septième Obsession, il bimestrale intitolato proprio alla settima arte: la copertina – nello specifico una foto di scena di Once Upon a Time in Hollywood di Tarantino – ha la capacità di invitare al suo interno il lettore, fondendosi abilmente con la tipografia del titolo principale, e sono le scelte dei caratteri a dare grande personalità agli articoli all’interno, con aperture che sanno di locandina.

Sugli scaffali è accompagnata da una pubblicazione monografica – quello che i francesi chiamano hors-série, fuori serie – la cui prima edizione è dedicata a Dario Argento, 132 pagine sul cinema del magicien de la peur. Entrambe invitano ad un pensiero critico e fuori dagli schemi nei confronti del cinema contemporaneo e fanno della rivista cartacea un prezioso prodotto di qualità, a partire dal design, ma passando anche per le copertine “da toccare” (con finitura soft touch) e la carta all’interno, patinata, ma non cheap.

Ad arricchire ulteriormente il mio bottino francese sono poi due riviste di cui inizialmente fatico a capire il contenuto mentre le sfoglio in un negozio sugli Champs Elysées: L’ADN e Welcome to the Jungle.

La prima è grande, come grandi sono i titoli e gli spazi bianchi che abitano le pagine, pur dense di contenuti. Scopro che parla di innovazione, ma non lo fa con il linguaggio classico del giornale di investimenti o quello ammiccante della rivista di tecnologia. Icone, semplici infografiche, sommarietti riassuntivi e filetti organizzano il contenuto rendendolo accessibile e accattivante anche ai non esperti, mentre la quasi totale assenza di pagine pubblicitarie e i risguardi elegantemente lasciati in blu e a pochi accenti grafici ne fanno quasi un libro (del resto, costa 15 Euro).

La “mano” grafica di L’ADN, lo studio francese Violaine et Jérémy, è la stessa di Welcome to the Jungle, che invece esplora il mondo del lavoro in modo originale (è questa la “giungla” a cui fa riferimento la testata). Trimestrale, privo di pubblicità, alle sue spalle c’è però un’agenzia con la mission di rendere la ricerca online di un posto di lavoro più piacevole e flessibile, all’interno del mercato francese (potremmo quindi definirlo un brand magazine).
Entrambe con una forte presenza online, queste riviste rappresentano per me un buon equilibrio tra strategia digitale e prodotto di qualità cartaceo, da collezionare.

The Modern Magazine 2018

Jeremy Leslie - ModMag 2018

L’1 Novembre a Londra si è svolta la sesta edizione di Mod Mag, la conferenza dedicata all’editoria periodica, a cura di MagCulture. Ecco i momenti più interessanti e i personaggi che, intervenuti sul palco, hanno saputo tenere il pubblico incollato alle sedie.

Il tema di questa edizione è “Reinvention”, cioè la capacità di reinventare un prodotto editoriale nel tempo o nella sua offerta diversificata.

Riviste, i fatti da ricordare del 2017

Quando la fine dell’anno si avvicina, si sa, è tempo di bilanci, di liste, di classifiche. Il 2017 è stato un anno in cui il mondo dell’informazione è stato messo, da un lato, a dura prova da fenomeni quali le fake news, dall’altro ha avuto un gran da fare nel rincorrere e raccontare eventi, specialmente a livello di politica internazionale, che ben ci ricorderemo anche nel corso dei prossimi anni. Questo ha sicuramente spinto anche creativamente molte redazioni e molte delle copertine viste quest’anno sono destinate ad essere ricordate (tra le mie preferite: New Yorker, C41, Time, Eye, Teen Vogue, e più o meno qualunque cosa fatta dal New York Times magazine).

 

Ma ecco in breve quelli che sono per la redazione di MGZN alcuni momenti e iniziative editoriali degne di nota di questo 2017:

 

  • Monocle ha rivisitato i periodici Mediterraneo ed Alpino che pubblicava qualche anno fa nei mesi estivi e invernali, lanciando ad agosto una Summer Weekly Edition e a dicembre la Winter, cioè settimanali formato newsprint, per accompagnare il suo target di utenti nei viaggi e nelle pause di vacanza;

  • Migrant Journal, l’apprezzato semestrale dedicato alle migrazioni nel senso più lato del termine, ha mostrato come usare gli inchiostri speciali (un colore diverso per ogni uscita) in modo non fine a se stesso – come spesso si vede in giro – bensì perfettamente integrato al tema e alle immagini pubblicate nel numero grazie a particolari profili colore;

  • Yes and No, nuovo trimestrale inglese, per le scelte grafiche di tendenza, a partire dal logo che su ogni copertina cambia forma e posizionamento;

  • Cereal, ridisegnato ad inizio anno, e Wired UK che da maggio presenta anch’esso una nuova grafica (ed è l’edizione di Wired attualmente sul mercato che preferisco – oh, nel frattempo quest’anno Scott Dadich ha lasciato il posto a Nicholas Thompson alla direzione di Wired USA);

  • ad aver cambiato è stato anche Creative Review: da aprile 2017 è diventato un bimestrale;

  • Anxy è il nuovo magazine indipendente finanziato con successo su Kickstarter (per ben due volte!) che più ho apprezzato quest’anno: a partire dal formato, passando per le scelte tipografiche e illustrative, fino all’argomento di cui si occupa: la salute mentale;

  • Athleta, invece, è il titolo italiano più interessante: fotografico e dallo spirito internazionale… ne sentirete presto parlare da queste parti :-);

  • rimanendo in Italia, non si può non segnalare l’ottimo lavoro di Francesco Franchi, approdato a La Repubblica e al suo inserto culturale della domenica, Robinson, e l’altrettanto ottimo lavoro di chi gli è succeduto alla direzione artistica di IL, Davide Mottes;

  • infine, la rivista che continua ad essere una grande ispirazione è l’allegato settimanale del New York Times. Oltre alle copertine e al design del magazine, è la sperimentazione continua che mi fa rimanere ogni volta a bocca aperta e nel 2017 è stato il numero interamente a fumetti – intitolato New York Stories ed uscito il 2 giugno – a conquistarmi.

Sopra a tutto, però, il 2017 a fatto tornare voglia, a questa redazione, di fare di nuovo riviste, perché, come ha scritto John L. Walters recensendo due premiazioni nel mondo editoriale inglese, siamo “idealistic set of people who are determined to make magazines and celebrate them” (idealisti determinati a fare e celebrare le riviste). Ma di questo parleremo nel 2018!

The Modern Magazine 2017

Come ogni autunno inglese che si rispetti, il 2 Novembre 2017 è tornata la conferenza The Modern Magazine dedicata al mondo delle riviste, non solo indipendenti. E’ ormai diventata un appuntamento fisso anche per me, e così ero lì, già al mattino presto, pronta a fare incetta di stimoli e idee.

La location non è più la Central Saint Martin, ma Conway Hall che sostituisce il fascino di una delle più rinomate scuole di grafica del mondo con un numero maggiore di posti a sedere, cosa che ha sicuramente permesso a tutti di trovare comodamente un biglietto per partecipare all’evento quest’anno.

Come sempre, tra gli ospiti previsti ci sono persone che non vedo l’ora di sentire parlare: quest’anno sono Anja Aronowsky Cronberg, Takahiro Kinoshita, Mirko Borsche, Nicholas Blechman. E, come ogni anno (o come da legge di Murphy), un volo mi impedirà di ascoltare l’ultimo dei miei favoriti…

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