Quest’anno Magculture Live (ex The Modern Magazine, ex ModMag) parte con il botto nonostante la lineup sembri un po’ sottotono rispetto ad alcune edizioni precedenti, a parte quel Matt Willey, art director del New York Times Magazine, che ovviamente è stato lasciato per ultimo.
ARIANE SPANIER, FUKT
Tutto ha inizio con Ariane Spanier, brillante, simpatica, finalmente con una presentazione con slide che si muovono e suonano. Racconta, attraverso un ordine alfabetico di parole chiave e aneddoti, la storia di FUKT magazine che, nonostante l’assonanza con una ben nota parola inglese, è norvegese e significa “umidità”. Fondata dal suo partner nella vita e nel lavoro, l’artista Björn Hegardt, nel 1999, lei entra a farne parte nel 2004, e oggi la rivista annuale affianca il suo lavoro come grafica e art director.
FUKT è un inno al disegno e all’illustrazione, una celebrazione dell’espressione umana, anche perché – dice – il disegno è il primo linguaggio che impariamo da bambini.
Ariane racconta le varie vicissitudini di una rivista votata all’indipendenza, tenuta in piedi da un team piccolissimo, senza alcuna forma di pubblicità (ma con accesso ad alcuni finanziamenti del governo norvegese che coprono in gran parte le spese di produzione). Molto sentita (e condivisa da gran parte del pubblico) è in particolare la questione della distribuzione: dopo un inizio molto artigianale, basato sulla distribuzione in alcune librerie selezionate, dopo la partecipazione alla New York Book Fair del 2008, decidono di affidarsi a due distributori, ma è l’inizio di un incubo, tra ritardi nei pagamenti e un sistema chiaramente “malato” per un prodotto di nicchia. Oggi si affidano in parte a un distributore, ma la maggior parte delle copie è gestita internamente da loro e, grazie ad un’accurata selezione di rivenditori, quasi ogni numero va sold out.
Le bellissime copertine sono le protagoniste di alcuni tra i momenti più toccanti ed esilaranti della presentazione: da quella misterioso-kinky del sex issue (stravenduto e segnalato persino da Playboy), a quella tipografica, passando per quella abitata da topolini bianchi, tutte sono oggi accompagnate da una versione animata che fa da teaser del numero, e sono sempre più interattive e accattivanti.
Il numero uscito nel 2009, con l’iconico ritaglio in copertina, ha portato fortuna e sfortuna ad Ariane: dapprima scopiazzato da qualche rivista cilena, ha portato poi il Washington Post a commissionare proprio a lei la realizzazione di una copertina per l’allegato settimanale del prestigioso quotidiano americano.
JAMES HEWES, FIPP
“I fucking love magazines”: esordisce così il CEO di FIPP, James Hewes, aprendo quello che sarà un intervento molto diverso da tutti gli altri. Per una volta si parla dei trend del settore dei media, in parallelo con gli sviluppi nella società. Quello che emerge è che i cambiamenti ora avvengono in maniera più rapida, rendendo difficile fare qualunque previsione e anche reagire a questi cambiamenti, da parte degli editori.
Quello che emerge dalle statistiche proiettate è che il modello di business tradizionale, basato sulle inserzioni pubblicitarie, è stato spazzato via: decollato nel secondo dopoguerra, ha raggiunto la sua massima espansione tra il ’90 e il 2000, per poi crollare irrimediabilmente e giungere agli stessi valori del 1950.
A fronte di questo crollo, alcuni editori hanno chiuso bottega, altri hanno dovuto ingegnarsi e trovare altre forme di reddito, dalla licenza del marchio all’organizzazione di eventi (Hewes dice che devono trovarne almeno 3 o 4 per rinvigorire le proprie finanze).
Se si è un grande editore, l’obiettivo dovrebbe essere quello di diventare il riferimento all’interno di un settore specifico e porta come esempio Meredith, leader nel mercato delle riviste femminili (da Living a Homes & Garden). Meredith, dopo l’acquisizione multimilionaria di TIME Inc nel 2017, ha infatti poi proceduto a tenere nel suo portfolio di riviste testate quali People e Food&Wine, andando invece a vendere quelle di target e mercato completamente diverso, come TIME: venduta al miliardario Marc Benioff di Salesforce.com – un “tech guy” – per 190 milioni di dollari, questa storia ricorda quella del Washington Post acquisito da Jeff Bezos di Amazon… questi “tech guys” sono in grado di infondere nuove idee nel mondo editoriale, proprio grazie alla provenienza da tutt’altro settore.
Il tempo stringe e l’intervento di Hewes – davvero interessantissimo – si fa dal ritmo sempre più serrato: racconta del numero di titoli indipendenti crescente in ogni mercato, del fatto che i player principali del mondo dell’advertising online – Google, Amazon e Facebook – non hanno alcun interesse per il mondo editoriale e quindi affidarsi a loro per la propria promozione è sostanzialmente sconsigliato, dei trend da online a stampa, come Hodinkee, Airbnb, Buzzfeed e Facebook. E molto altro. Anche dopo un reality check come questo, I still fucking love magazines, too.
Segue una sessione intitolata “making a difference” (fare la differenza), a cui partecipano Alexander Morrison di CONTRA, Martha Dillon di IT’S FREEZING IN LA! e Felicia Pennant di SEASON. Queste tre riviste sono portatrici di cambiamento o trattano tematiche delicate, poco rappresentate nei media mainstream o poco discusse. Contra, ad esempio, racconta il conflitti attraverso il rapporto tra immagine e potere, analizzando in profondità una diversa tematica in ogni uscita (Displacement e Protest i primi due pubblicati). It’s freezing in LA! prende il nome da un twit di Donald Trump che smentiva – a suo dire – l’esistenza del cambiamento climatico… la rivista è una zine che affronta il tema del climate change da angolature sempre nuove ed è essa stessa sostenibile: poche pagine, sfruttate al meglio per non sprecare carta. Season, invece, usa passione, diversità e creatività per combattere il sessismo, la discriminazione basata sull’età e l’omofobia tipiche del mondo del calcio, per unire fashion e football in una zine.
Giovani e forse un po’ idealisti, rappresentano una ventata di freschezza e di speranza per il futuro.
Sale poi sul palco Gert Jonkers, co-fondatore della rivista di moda maschile Fantastic Man. Avrebbe potuto dire tante cose della rivista, meritatamente tra le riviste indipendenti di maggiore successo al mondo, ma non ci riesce. Racconta in parte l’evoluzione del magazine, distribuito per la prima volta nel 2005 con sole 124 pagine e in copertina l’attore Rupert Everett e oggi disponibile in una veste tutta nuova, quadrato, con un nuovo logo, nuova carta (ora è glossy), e un tema, la Grecia. Racconta del suo tentativo di rendere la politica “fashionable”, cercando di coinvolgere vari esponenti politici internazionali per degli articoli (tra cui il nostro Matteo Renzi): una cosa che non gli è mai riuscita prima di questo numero, sulle cui pagine troneggia Yanis Varoufakis, ex ministro delle finanze greco. “Di strada se ne è fatta”, dice, “da quando Barack Obama fu criticato aspramente per essere finito sulla copertina di Men’s Vogue” (un’avventura editoriale di breve successo, questa di un Vogue al maschile per il mercato americano, destinata a durare solo un paio di anni, dal 2005 al 2008).
Infine Jonkers intrattiene il pubblico mostrando alcune pagine da una delle sue più grandi fonti di ispirazione, un catalogo di abbigliamento per corrispondenza dal titolo International Male, e una selezione dei suoi pantaloncini di jeans a cui più è affezionato. Divertente, forse, ma niente di più…
SERGE RICCO, L’OBS
Art Director di L’Obs, settimanale francese rilanciato con questo nome nel 2015, con il suo accento francese e le sue bellissime slide, Ricco ammalia tutta la platea. Il suo è un intervento a metà tra il poetico e il cinematografico: mostra scene iconiche da film altrettanto celebri come “A Bout De Souffle” di Jean-Luc Godard e “Il dittatore dello Stato libero di Bananas” di Woody Allen, scene in cui l’editoria fa da sfondo alle vicende narrate.
J’adore the spread – dice di amare la doppia pagina che, nelle riviste, fa da apertura ad un articolo. Spiega che è come avere le braccia aperte e gli occhi aperti, proprio così, come le due pagine verticali che si aprono a formare qualcosa di affascinante, per convincere il lettore ad immergersi in una nuova notizia.
JODY QUON, New York magazine
Un intervento fantastico da parte del Photography Director del magazine newyorkese da 15 anni, sarei stata ad ascoltare gli aneddoti di Jody Quon per ore ed ore. L’obiettivo, per lei e il suo team, è quello di mostrare ciò che è un soggetto familiare in un modo nuovo, sicura di poter contare su un team di collaboratori e un pool di fotografi eccezionali.
Molti gli esempi che porta e descrive, come la recente copertina sull’impeachment di Trump o quella, datata 2012, in cui New York è ritratta da un elicottero in volo durante il blackout dovuto all’uragano Sandy.
L’ispirazione? Spesso arriva da Instagram, che usa per seguire nuovi fotografi con cui instaurare potenzialmente un a collaborazione.
MATT WILLEY, Port Magazine e New York Times magazine
E’ lui l’ospite più atteso ed è lui quello che si avvicina al palco con fare più timido e modesto. Il suo lavoro è eccezionale, complice anche la collaborazione con grandi direttori e designer – come il Vince Frost con cui ha fatto la splendida Zembla nel 2003 o Gail Bichler con cui ha contribuito a rendere il New York Times Magazine un appuntamento settimanale non solo per i lettori affezionati del quotidiano, ma anche i designer, illustratori e fotografi di tutto il mondo. Il suo racconto parte con l’aneddoto ormai noto della quasi totale sordità che gli venne diagnosticata da bambino e che favorì il suo avvicinamento al mondo dell’illustrazione e della grafica. Da lì in poi la sua storia è costellata di progetti editoriali tra cui spicca Port di cui è co-fondatore con Dan Crowe e Kuchar Swara, in cui emerge una forte predilezione per la tipografia e il suo uso più creativo (“Non avevamo budget per le immagini a Zembla, quindi abbiamo usato i caratteri come immagini”, dice).
Di lì a pochi giorni sarebbe stata annunciata l’uscita di Matt Willey dal team del New York Times per diventare partner del prestigioso Pentagram.
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