Come ogni autunno inglese che si rispetti, il 2 Novembre 2017 è tornata la conferenza The Modern Magazine dedicata al mondo delle riviste, non solo indipendenti. E’ ormai diventata un appuntamento fisso anche per me, e così ero lì, già al mattino presto, pronta a fare incetta di stimoli e idee.

La location non è più la Central Saint Martin, ma Conway Hall che sostituisce il fascino di una delle più rinomate scuole di grafica del mondo con un numero maggiore di posti a sedere, cosa che ha sicuramente permesso a tutti di trovare comodamente un biglietto per partecipare all’evento quest’anno.

Come sempre, tra gli ospiti previsti ci sono persone che non vedo l’ora di sentire parlare: quest’anno sono Anja Aronowsky Cronberg, Takahiro Kinoshita, Mirko Borsche, Nicholas Blechman. E, come ogni anno (o come da legge di Murphy), un volo mi impedirà di ascoltare l’ultimo dei miei favoriti…

Si parte con Isabel Seiffert e Justinien Tribillon, il team di Migrant Journal, una rivista che tratta il tema della “circolazione delle persone” in maniera assolutamente non scontata. Il progetto prevede sei numeri e il terzo, che in copertina riporta “Flowing Grounds” e racconta mari e oceani come teatro di migrazioni umane e animali, è in uscita a giorni. Tribillon racconta che, a creare Migrant Journal, sono persone che vivono in Paesi diversi da quelli di nascita: sono essi stessi migranti e sembrava un’ottima premessa per intraprendere un progetto del genere.

Isabel Seiffert racconta più il lato creativo e del design della rivista, sottolineando come sia il lato contenutistico che visuale siano stati coinvolti insieme, fin dall’inizio, consentendo così di creare un linguaggio che si esprime efficacemente sia con le parole che con le immagini. Ogni numero si apre con tre immagini evocative, un indice dei contenuti “geografico” e poi varie infografiche e mappe arricchiscono il ricco contenuto testuale. Un’illustrazione – ogni volta affidata ad un illustratore diverso – chiude la quarta di copertina.

Ma di sicuro sono almeno tre dettagli ad attirare l’attenzione nei numeri di Migrant Journal: la tipografia (hanno sviluppato un proprio font, Migrant Journal Grotesk), la carta della copertina (tutta da toccare per la sua texture ogni volta diversa) e la stampa con inchiostri speciali e metallici, anche per le fotografie, grazie all’uso di particolari profili colore.

Se vi siete chiesti il motivo di fare una rivista in sole sei uscite anziché un libro, Tribillon ha affrontato il tema nel corso del suo intervento, portando un esempio che ha divertito la platea: se il film “Salvate il soldato Ryan” ha una media di gradimento dell’8.5 su IMDB, mentre il suo spin off a puntate, “Band of brothers“, ha, invece, una media di 9.5, allora la formula che si sviluppa più a lungo nel tempo – come una serie tv anziché un film, una rivista anziché un libro – è più vincente e consente di trattare nel tempo argomenti in modo più approfondito.

Paper still ages better than digital.

C’è una frase che pronuncia e che, nel corso della giornata, verrà ripresa da altri speaker: paper still ages better than digital. La carta continua ad invecchiare meglio del digitale. Possiamo dargli torto?

A prendere la parola successivamente è Lydia Garnett di Accent. “Vite al di fuori dell’ordinario” è la tagline di questa rivista da poco giunta al suo terzo numero, dopo essere partita come sito web nel 2011. Anche se è facile descriverla come una rivista di fotografia (Lydia stessa lavora come fotografa di ritratto), spiega che più vicina al lifestyle e lontana dalla moda. A consentire al progetto di proseguire è l’interessamento di alcuni brand importanti come Givenchy e Fred Perry che finanziano il magazine, attraverso pubblicità tradizionali o eventi e comarketing.

Sale poi sul palco l’acclamato Tony Brook. Suo è lo studio SPIN di Londra e la casa editrice Unit Editions, specializzata in raffinati libri sulla cultura visiva. La sua è davvero la presentazione più bella e curata dal punto di vista grafico, ricca di animazioni che accompagnano il suo humor. Racconta di come da sempre abbia affiancato progetti personali a quelli lavorativi (lo fa citando la frase resa famosa dal film “L’uomo dei sogni” con Kevin Costner, “If you build it, they will come“) e di come il format della rivista sia perfetto per la sperimentazione. Il suo ultimo progetto è “SPIN / Adventures in typography“, rivista che ama sperimentare con le forme tipografiche, rendendole parte di un gioco. Stampato con cura su carte Fedrigoni, per ora è uscito il primo numero.

Arriva il momento di Anja Aronowsky Cronberg, direttrice della rivista Vestoj. Svedese, vive a Parigi, ha per anni diretto il brand magazine Acne Paper, prima di fondare Vestoj (parola che in esperanto significa “abbigliamento”) e lavorare come ricercatrice al London College of Fashion, attività che sostanzialmente finanzia la rivista che non ha pubblicità né sponsor. Pubblicata annualmente, Vestoj lavora su numeri tematici che spaziano dalla magia alla mascolinità, dal potere alla vergogna e, pur definendosi una rivista legata alla moda, non ne segue i trend o le classiche periodicità (quelle delle collezioni primavera/estate, autunno/inverno), ma ha come obiettivo esplorare il perché indossiamo ciò che indossiamo. Del manifesto/dichiarazione di intenti che proietta, Anja sottolinea alcuni punti principali: tutto deve essere messo in discussione, non c’è niente di sacro; la pubblicità è proibita; l’approccio deve essere multidisciplinare e il linguaggio accessibile. In questi punti si riassume tutta la missione di Vestoj, il suo tentativo di raccontare con spirito critico il mondo della moda, in modo che possa avvicinare non solo chi se ne occupa professionalmente o a livello accademico.

A succederle sul palco è Owen Pritchard, editor del sito It’s nice that e relativa rivista, Printed Pages. Interessanti sono i numeri che condivide: al sito lavorano 14 persone che producono 2500 articoli all’anno, 13 al giorno. I lettori sono 1.3 milioni, 500 mila al mese. Con gli eventi mensili (Nice Tuesdays) raggiungono 4800 persone, 750 con quello annuale. Amano fare la rivista, nonostante gli impressionanti numeri del sito, perché rappresenta un prodotto diverso, di pausa e celebrazione, che funziona anche dal punto di vista economico.

Uno spiraglio verso un mondo editoriale molto diverso da quello italiano e occidentale in generale ci è dato dall’intervento di Takahiro Kinoshita, direttore della rivista giapponese “Popeye“. Anche se il nome ricorda un famoso personaggio dei fumetti, più volte sfruttato sulle stesse copertine, in verità unisce le due parole inglesi “pop” e “eye”, indicando così la sua missione di tenere sott’occhio i trend della moda e cultura popolari occidentali e proporle ai giovani giapponesi. Fondata nel 1976, Popeye è una delle riviste più longeve della storia, e si inserisce all’interno di un mercato editoriale molto particolare, quello giapponese, che se pur in declino, conta oggi ancora 4500 testate. Il suo fondatore si ispirò al Whole Earth Catalog di Stewart Brand (ne abbiamo scritto brevemente qui) e strutturò il primo numero proprio come un catalogo di prodotti americani che ancora non erano conosciuti o di uso comune in Giappone, tra cui lo skateboard, il jogging, la squadra di basket L.A. Lakers.

Popeye, negli anni, ha rispecchiato il clima economico: solitamente pubblicato ogni due settimane, negli anni Novanta diventò un settimanale e la sua tiratura raggiunse le 800 mila copie, per poi cominciare ad avere qualche difficoltà nel 2000, fino al 2010, anno in cui raggiunse il minimo storico di 20 mila copie. E’ in quel momento che Takahiro Kinoshita accetta la sfida di risollevare la rivista, riportandola in realtà alla sua origine di “magazine for city boys” con un numero-catalogo proprio come il primo. Nell’arco di soli tre mesi la tiratura sale a 100 mila copie ed oggi Popeye vanta lettori anche al di fuori del Giappone.

Liv Siddall prende poi la parola, lei che di solito è solo “conduttrice” di The Modern Magazine è oggi invece presente anche nelle vesti di direttrice di Rough Trade Magazine… o, meglio, ex (un paio di mesi fa l’hanno licenziata, offrendole la posizione di social media manager: un classico!). Con simpatia e umorismo racconta dell’avventura di creare, praticamente da sola, una rivista per l’etichetta discografica e il negozio di Londra, e delle scelte editoriali che ha messo in atto per distinguersi nell’offerta di magazine musicali già sul mercato, dandole invece un look and feel da fanzine, coinvolgendo artisti e collaboratori con un budget di circa 1000 sterline a numero.

E’ poi il momento di Mirko Borsche. E’ lui l’art director di Zeit Magazin di cui Christoph Amend parlò profusamente l’anno scorso alla stessa conferenza (qui il report), sottolineando come il team che lavora alla rivista è dislocato tra tre diverse città tedesche – Amburgo, Berlino, Monaco – e quindi non si vedono praticamente mai. Questo sembra essere il leit motiv dell’attività di Borsche che illustra le varie collaborazioni in essere – tra cui la rivista italiana Kaleidoscope (che, a quanto pare, eravamo in due a conoscere tra tutto il pubblico) – ed evidenzia come non abbia mai incontrato “in real life” la maggior parte dei suoi committenti.

Spiega che uno dei punti fermi della sua filosofia è rinnovare continuamente la grafica di ogni prodotto su cui lavora, dice di non credere nei “redesign periodici”. Mostra anche le sue grafiche più eccentriche, dove la leggibilità passa davvero in secondo piano, e speravo proprio si avventurasse a discutere più nel dettaglio un’estetica difficile come la sua (poiché non facilmente definibile come “bella”), ma così non è.

Segue la tavola rotonda a cui partecipano vari personaggi che sono già intervenuti durante edizioni precedenti della conferenza: Paul Gorman, il cui libro sulla storia della bellissima rivista The Face esce finalmente tra pochi giorni, Matt Phare di Shortlist e Stylist, Bertie & Char di Mushpit, Danielle Pender di Riposte, John L Walters di Eye. Jeremy Leslie cerca di portare il discorso su quanto sono cambiate le cose dalla prima edizione della conferenza, cinque anni prima, e le previsioni per i cinque anni a venire. Anche se gli interventi di Walters e Gorman sono sempre profondi e interessanti, e così quelli di Pender, è una tavola rotonda davvero dimenticabile.

Prima che un aereo mi riporti in Italia, riesco a sentire un ultimo intervento, quello di Francesco Franchi. Devo dire che il ventaglio di lavori che ha mostrato – dagli esordi con IL, ai libri per Gestalten, fino alla nuova avventura con Robinson per La Repubblica – lascia il pubblico londinese davvero senza fiato, consentendogli di sbirciare per un attimo tra le pareti di una grande redazione italiana che lavora con ritmi velocissimi e nessuna possibilità di sbagliare. Il tutto accompagnato da contenuti di alta qualità, collaborazioni eccellenti con illustratori, fotografi e un design sempre interessante e innovativo. Ci lascia con un’anticipazione: il lancio di un nuovo prodotto editoriale il 22 Novembre (ma nessun altro dettaglio, purtroppo!).

Esco per raggiungere l’aeroporto, dove mi aspetta un’ultima visita a un WH Smith prima di tornare a casa… in fondo, ho ancora un po’ di spazio in valigia per altre riviste ;-)