E’ raro che a catturare l’attenzione e a destare l’entusiasmo dei giovani designer siano il rigore grafico o la perfezione tipografica. Anche chi rimane affascinato dalla “pulizia” di una “classica rivista indipendente” (Cereal, tanto per fare un nome “a caso”), in realtà apprezza qualcosa che è tutt’altro che la norma o la tradizione (l’enfasi sul contenuto fotografico, lo spazio bianco). E’, infatti, la rottura, l’insolito, il coraggio e l’espressività di scelte grafiche insolite e fuori dagli schemi a coinvolgere i più e ad attirarli addirittura verso la professione nel campo del design.
Così è andata anche per me, anni fa. Quando per la prima volta mi è stato mostrato l’altro lato dell’editoria, a me che fino ad allora ero stata “solo parole”, sono state le intricate composizioni tipografiche di David Carson ad affascinarmi e a lasciare un segno indelebile nella mia memoria, mostrandomi come l’interpretazione letterale di un testo in forma visiva non fosse la sola strada percorribile.