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Il caso Vogue. Quando le riviste muoiono, la colpa di chi è?

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L’annuncio di qualche giorno fa parla della chiusura di tutte le testate italiane della galassia Vogue, ad esclusione della capostipite, quel “Vogue” che è stata per decenni la creatura di Franca Sozzani e che è rimasta al vertice fino alla (sua) fine e ora passata ad Emanuele Farneti (qualche settimana fa, il primo “capitolo” di questa storia, nelle edicole italiane, ne abbiamo parlato qui). Condé Nast, che col suo Stato Maggiore troneggiava sorridente ed ottimista sulla copertina di Prima Comunicazione del mese di Aprile: Fedele Usai, nuovo AD che entrerà in carica però solo il 1° settembre, insieme al “sostituito” Giampaolo Grandi che rimane però nella posizione di Presidente del Gruppo editoriale e tra loro Jonathan Newhouse, CEO e Chairman di Condé Nast International), diceva che

oggi fare gli editori significa sperimentare nuovi contenuti di qualità, su carta e digitale

Per certi versi, questa frase doveva suonare come un campanello di allarme… più che un segno di ottimismo. Sperimentare, di fatto, vuol dire anche e soprattutto “cambiare”, quindi sia aprire che chiudere le strade. Per ora, quello che si è visto, è la chiusura, e a dirla tutta non sembra poi così un percorso “innovativo”.

Sembrano della stessa opinione i giornalisti di CondéNast che dopo un’assemblea hanno rilasciato un comunicato molto duro, dal quale estrapoliamo:

[…] La Condé Nast ha usufruito in questi anni di ammortizzatori sociali (il secondo biennio di solidarietà si conclude a fine 2017): ha utilizzato e continua a utilizzare cioè soldi pubblici che, in base alla legge, devono essere impiegati proprio per evitare i licenziamenti e rilanciare le testate. Ma a tutt’oggi l’azienda sembra non aver saputo o voluto rilanciare niente. Anzi, a 5 mesi dalla fine della solidarietà, preannuncia alle rappresentanze sindacali che i cosiddetti esuberi sarebbero aumentati fino ad ammontare adesso a un terzo dell’intero corpo redazionale. […]

E l’attacco diventa più duro quando i giornalisti si domandano, pubblicamente:

[…] Perché l’azienda, che avrà anche visto una diminuzione dei profitti negli anni, ma non ha certo il bilancio in rosso, continua a gonfiare gli esuberi? È possibile che il taglio di posti di lavoro sia l’unica strada individuata per fare quadrare i conti? […]

E, conclude:

[…] È dunque con forza che l’assemblea di redazione di Condé Nast invita l’azienda a soprassedere da questa politica dei tagli che trasforma i giornalisti stessi in ammortizzatori sociali, in barba a quanto prevede la legge per intervenire nei casi di reale sofferenza economica delle aziende. L’assemblea chiede inoltre un serio piano di rilancio delle testate e chiede ragione di quattro anni di scelte strategiche che, sulla fine della seconda solidarietà difensiva consecutiva, si sono evidentemente rivelate sbagliate e che non possono di nuovo essere scaricate sulle redazioni. […]

Ovvio che tutto questo fa riflettere, spaventa, preoccupa, prima di tutto i giornalisti e i professionisti che ora sono considerati “esuberi” che – come è stato dichiarato – non verranno reintegrati, e si parla di circa 40 persone. Al tempo stesso, in tutto questo, c’è un punto importante: i bilanci della Condé Nast Italia sono appunto in attivo (3 milioni di utile nel 2016, in crescita rispetto ai 2,3 milioni dell’anno precedente), quindi se da un lato – quello dei giornalisti che hanno decretato 4 giorni di sciopero – significherebbe che non ci sarebbero motivi per queste chiusure, ci domandiamo: ma quanto ha senso lavorare per editori che “non credono più nelle riviste”?

Stacchiamoci un attimo dalle questioni personali (che sono dolorose, pensiamo a tante famiglie che dovranno subire queste decisioni), e domandiamoci: ma se editori di grande valore come Condé Nast non credono che ci sia modo di “salvare” riviste importanti e prestigiose, che hanno una storia e un valore importante, più che riflettere la rabbia e la delusione verso chi ha preso queste decisioni, non ha senso che ci si domandi: ma io, che in questo momento lavoro (oppure sono appena stato “esonerato/a”) davvero voglio lavorare per un editore che non crede nelle riviste? E io ci credo, nelle riviste, oppure sotto sotto credo che siano un prodotto ormai superato, per pochi, senza futuro?

Questa è la questione, sulla quale riflettere, ma tutti insieme. Chi lavora nel campo dell’editoria, siano questi giornalisti, poligrafici, assistenti di redazione, addetti alla sicurezza o receptionist… che futuro si può avere, se gli editori, quelli che devono portare avanti “la sperimentazione dei nuovi contenuti, sia su carta che digitali” invece che investire, credere, scommettere sulle riviste decidono che è meglio chiudere le testate? Lo scenario è cambiato, non c’è dubbio, ma questo non significa che l’editoria e le riviste stiano morendo, tutt’altro. Hanno bisogno di nuove visioni, fatte davvero di “prodotti di qualità”, c’è bisogno di nobilitare la carta e costruire prodotti digitali che funzionano, e non certo con i business model che ormai sono in mano a Google e Facebook, che faranno solo finta – magari regalando briciole per non sembrare troppo cattivi – di lasciare qualche spazio all’informazione “indipendente da loro”. Fanno ridere gli editori che stanno cercando di combattere lo strapotere dei motori di ricerca e dei “giardini recintati” usando quelle armi che hanno inventato i loro “nemici”. Bisogna innovare, cambiare le regole di come si progettano, come si vendono (pubblicità e copie), come si producono e come si distribuiscono.

Il fenomeno dell’editoria indipendente, finora definita ed affiancata a realtà “piccole”, (o, per i romantici, “libera”), dimostrano che le riviste hanno un mercato, e che ci si vive, anche bene. Non funzionano più i castelli (o i palazzi nelle “piazze Castello”) perché non c’è la forza o la capacità, o forse solo il desiderio e l’utilità, di fare vera innovazione, e questo non vuol dire cambiare la grafica, o usare “i social”. Ci domandiamo se le persone che usciranno da Condé Nast andranno a cercare riparo da altri editori (quali?) per continuare questo percorso di agonia, perché saranno pochi i gruppi editoriali che continueranno credere nelle riviste. Immaginiamo che i grandi editori non crolleranno, ma si modificheranno, ma chi sa fare riviste perché non prosegue a farle? Certo, cambia tutto, passare da una condizione di lavoro da dipendente dove semmai si può borbottare delle decisioni prese dall’alto, a qualcosa che invece vive se – come un tamagotchi – verrà alimentata e coccolata ogni giorno, sarà difficile.

Il mercato delle riviste ha bisogno di persone capaci, che possano fare la differenza, che abbiano davvero qualcosa da dire. Siamo dell’idea che non ci saranno più separazioni, tra riviste “mainstream” e “indipendenti”… le prime devono raffinarsi e ritrovare nel lettore il proprio cliente (non nella pubblicità e negli apericena chic); le seconde, le nostre amate “indie” devono diventare mature, perché anche l’editoria indipendente è di fronte ad un bivio: senza un progetto concreto, solido, imprenditoriale, si scioglieranno al sole. Oggi sono ancora funzionali, perché sono belle, perché sono alternative, perché sanno “di buono”, ma ormai sembra che la formula sia stata svelata a tutti, e l’eccesso di proposta porterà – inevitabilmente – ad una selezione. Chissà che questi (ed altri) esuberi che ci aspettiamo possano creare una nuova linfa che unisca professionalità a passione, impegno a visioni più concrete? Forse è questo il rinascimento delle riviste, e quando tutto questo accadrà, i grandi gruppi editoriali riscopriranno quello che avevano abbandonato, ritroveranno i loro figli abbandonati sul ciglio della strada, che saranno diventati grandi e belli. La storia è all’inizio, ma verrà scritta solo da chi ci crede davvero.

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