Negli anni successivi all’avvento di Internet è diventato un tema sempre più discusso quello del fare e farsi pagare i contenuti veicolati digitalmente. Come scrisse qualche anno fa Beppe Severgnini parlando di ebook, “quello che conta è la marmellata, non il vasetto che la contiene“, ma certo non sono bastate le sue semplici, ma precise parole a convincere tutti coloro che inevitabilmente associano al termine “digitale” quello di “gratuito“. Anche i maggiori editori hanno tentato e stanno tentando di erigere fantomatici paywall (da un paio di giorni anche il Corriere della Sera, con tanto di redesign del sito) che sbarrano l’accesso ai propri siti web se non previo pagamento, ma questa strada rimane difficile da intraprendere da tutti i piccoli editori o blogger che trovano nell’online la forma più economica (almeno a livello di produzione) di editoria.
Ci sono progetti che negli ultimi tempi stanno però cercando forme di finanziamento alternative e anche forme di distribuzione di informazioni fuori dagli schemi: un esempio è Good Morning Italia che quotidianamente vi fa trovare nella casella di posta le notizie principali del giorno, dopo aver fatto scandagliare i quotidiani italiani ed esteri dalla sua redazione di giornalisti. Costo? € 1,99 al mese, € 17,99 all’anno e € 49 per tutta la vita.
Oppure il più recente Wolf, progetto congiunto di Datamediahub e Slow News, che ha appena lanciato il suo primo numero, grazie ad una campagna di crowdfunding di successo, rispondendo anch’esso al crescente interesse nei confronti di un modello definito “subscription economy” di cui tanto si parla in vari ambiti.
Quando si parla di crowdfunding, c’è una cosa che mi torna sempre alla mente: quell’articolo del 2008 in cui Kevin Kelly, Founding executive editor di Wired USA, scriveva che se ogni creativo potesse contare sull’aiuto e sostegno economico di 1000 fan veri, potrebbe vivere tranquillamente della sua creatività. Un nome che si cita spesso in questo ambito è Amanda Palmer, cantautrice che, sfruttando varie piattaforme e il web con talento, può permettersi di vivere di musica senza avere alle spalle un grosso contratto discografico (essere stata leader dei Dresden Dolls con contratto major in passato e aver sposato Neil Gaiman non hanno certo danneggiato la sua notorietà!), tant’è che lei ci ha scritto un libro, sull’arte di chiedere aiuto: The Art of Asking, appunto.
Sull’onda di queste riflessioni, mi sono fermata a riflettere su quanti progetti editoriali che mi sono passati sotto gli occhi sono nati così, grazie ad una campagna su Kickstarter, e mi sono stupita di quanti davo per “nati per vie tradizionali” e invece no. Di Sirene e The Future Chronicles abbiamo già scritto qui, ma poi ci sono almeno Minimalissimo, Remarkable, The Great Discontent, Intern, Cherry Bombe, Pylot, Chickpea… trattano i temi più disparati, dalla fotografia analogica alla cucina vegan, dalla vita degli stagisti al design, ma soprattutto sono quasi tutti arrivati con successo al numero 2 stampato e distribuito, e alcuni molto oltre.
Per chi fa editoria, non c’è di meglio che sapere di avere un pubblico che desidera avere tra le mani il prodotto a cui stai lavorando al punto da investire denaro sulla fiducia (anche se si tratta di cifre non impegnative). Dall’altra parte, ci si sente parte di un bel progetto e si vuole sostenere, come e quanto si può, i prodotti fuori dagli schemi e da tutte quelle ingessature proprie delle case editrici tradizionali.
Qualche mese fa la zine Gym Class metteva in copertina, a caratteri cubitali, la frase scomoda “Nobody cares about your oh-so-cool kickstarted tactile minimalist unoriginal magazine” (a nessuno interessa la tua rivista tanto cool, tattile, minimalista e poco originale finanziata via Kickstarter), ma in fondo forse sì…