“Wired was the crazy adventure“, così Louis Rossetto introduceva il progetto per cui è probabilmente più conosciuto al mondo – la rivista Wired, appunto – qualche sera fa, in una diretta streaming su Kickstarter. Tra qualche ora terminerà il countdown del progetto che lui ed Erik Spiekermann (noto font designer e grafico) hanno lanciato per finanziare la pubblicazione in tiratura limitata di “Change is good“, un romanzo scritto da Rossetto sulla rivoluzione digitale degli anni Novanta, realizzato e stampato in modo innovativo e sperimentale da Spiekermann (lo chiama “post-digital printing“, poiché unisce la qualità della tipografia digitale a quella della stampa letterpress, per la prima volta possibile stampando da computer).
E’ una storia, quella della rivoluzione digitale, che Rossetto conosce bene, l’ha vissuta in prima persona quando anch’egli calcava le strade di “SOMA” (South Of Market Street, a San Francisco) e, tra un rave party e un brainstorming, fondava la rivista Wired, che di quella stessa rivoluzione è stata protagonista e narratrice.
Durante la diretta streaming per la promozione di “Change is good”, la chatroom non è affollatissima e così, dopo aver rotto il ghiaccio con qualche battuta in italiano (come il suo cognome suggerisce, Rossetto ha origini italiane e se la cava molto bene con la lingua), avanzo qualche domanda. Gli chiedo quanto il primo Wired fosse “indipendente”, nel suo essere estremamente curato nei contenuti, ma anche nella grafica e nella ricercatezza di materiali e metodi di stampa.
“Cercavamo sponsor, Jane (Metcalfe) ed io, volevamo che un grande editore pubblicasse Wired, ma non riuscivamo ad avere la loro attenzione. Fu un progetto indipendente fin dall’inizio, furono investitori privati a darci il denaro per farlo nascere. Gli unici soldi provenienti da un’istituzione più grande arrivarono solo più tardi, da Condé Nast, quando Wired era già un successo”, racconta in video Rossetto. “Cercavamo di ampliare i confini del concetto di ‘stampa’ dell’epoca. Siamo stati i primi a stampare in computer-to-plate e ad usare una stampante Heidelberg a 6 colori che era appena uscita sul mercato ed era lunga quanto un camion. Tutto era brillante e cristallino sulle pagine di Wired, John Plunkett (di Plunkett+Kuhr, era suo il progetto grafico) sapeva come ottenere il massimo dalla stampa offset. Tutti volevamo fare un prodotto che, anche come oggetto, fosse di completa rottura”, prosegue. “Abbiamo provato varie carte e varie tipologie di trattamenti per le copertine. Ogni volta ci dicevamo: ‘non facciamo ciò che è già stato fatto, facciamo di meglio‘, questo era lo spirito. E, uscito il magazine, ci accorgemmo che il lato digitale sarebbe stato altrettanto importante. Non potevamo prendere la rivista e metterla online – cioè fare ciò che stavano facendo gli altri – noi volevamo, invece, capire cosa il web fosse e cosa richiedesse. Nel frattempo, continuavamo a stampare il magazine e ancora oggi per certi versi amo la carta: è sensuale, fa una cosa molto bene che uno schermo non fa, non è un caso che la comunicazione digitale si sia ridotta a frammenti di informazioni da 140 caratteri, mentre i libri sono ancora di 400 pagine e contengono magari una sola storia. Per tutto ciò che richiede maggiore immaginazione, raziocinio e intelligenza, penso che questo sia ancora il mezzo migliore, anche per le riviste”, dichiara Rossetto mentre prende in mano la prova di stampa di “Change is good”.
Una “crazy adventure”, quella degli inizi di Wired, così come quella narrata nel libro, che porta come sottotitolo la frase “a story from the heroic era of the Internet”. Grazie Louis, grazie per la chiacchierata!